|
|
|
|
|
|
|
Le cittá sono reti complesse di relazioni e, ancor
prima di essere agglomerati di case e strade,
piuttosto che la strutturata rete delle loro parti
fisiche e materiali, consistono e si giustificano a
partire dalla volontá delle persone di incontrarsi,
di stare insieme per scambiare cose, idee,
esperienze, saperi; esse sono generate cioè
dall’esigenza, espressa con profonda convinzione,
di trovarsi, o di incontrarsi perché lí si incrociano
i percorsi degli uomini e delle donne e, perció, in
quel punto si fissano i momenti dell’incontro.
Le cittá sono momenti di incontro (o magari
soltanto momenti del desiderio di incontro)
materializzatisi sotto forma di muri, strade, case,
luci, piazze, sale, stanze, fiere, teatri, fontane,
bagni, terme ... Esse rappresentano la costruzione
dello scenario che si definisce come propiziatore
dell’incontro, e del risultato costruttivo dell’incontro
medesimo. Le cittá sono fatte del tempo
dell’incontro e del tempo che lo anticipa.
Le cittá, dunque, sono fatte di tempo, ancor prima
che di spazio, e scolpite nel tempo. Paesaggi
dalla dinamica velocissima, le cittá crescono e
decrescono in complessitá e numero di abitanti,
estendendosi su superfici che vengono riempite
di segnali, che si relazionano in modo piú o meno
complesso con altri segnali preesistenti. Le cittá
sono piattaforme di raccolta dei segnali delle
relazioni che le hanno determinate. E ci sono
segnali costantemente nuovi che marcano relazioni
costantemente diverse.
Le cittá nascono, crescono, maturano, invecchiano,
ringiovaniscono, decrescono e muoiono; sono
frutto del caso, o di gesti straordinariamente
premeditati e accuratamente pianificati, e
racchiudono in sé il meraviglioso e l’abominevole,
l’ordine e il caos, tutto e il contrario di tutto.
Le cittá si sovrappongono lentamente ai territori
che le precedono, tentando di cancellare o di
conservare i segnali fondamentali della loro
organizzazione. Le cittá si trasformano sempre,
strumenti dell’incontro e del modo di incontrarsi
e, in questa trasformazione, rivelano, a volte piú a
volte meno, il loro passato – geologico, zoologico,
idrografico – ravvivando strati sempre presenti o
sotterrandoli con raddoppiata convinzione.
Le cittá non possono smettere di essere pensate
in modo dinamico, attraverso metodologie capaci
di contenere, oltre all’intensitá della fiducia cieca
e alla profonditá di convinzione nella direzione
della trasformazione, anche l’esitazione, l’errore, il
tentativo, il ripensamento.
Le cittá sono fatte di affermazione, di convinzione,
dei marchi e dei segni di tale convinzione, ma
anche della loro assenza, di spazi intermedi, di
silenzi, di vuoti, di spazi di riserva lasciati in attesa,
perché sia possibile ricevere l’iscrizione del futuro,
delle convinzioni future e dei loro segni.
Vicenza vive nella complessitá dei suoi problemi di
cittá, aggravatisi in problemi di cittá ricca e, perció,
ricercata come chimera dalle migliaia di poveri che,
di fatto, la cercano senza trovarla. Vicenza stessa
é alla ricerca di sé stessa, convinta dell’esistenza
di altri valori che non siano l’accumulazione di
ricchezza, di ragioni altre che
non siano quelle di alloggiare
chi lavora per una miseria.
Essa vacilla nello stretto spazio
che media tra l’inevitabile
trasformazione perché i tempi
cambiano, e la trasformazione
che abbiamo voluto innescare
perché i tempi cambiassero.
Le cittá rivelano l’accumulazione
di segnali nel corso del tempo,
e la sovrapposizione di tali
segnali, con maggiore nitidezza
e intensitá di qualsiasi altro
territorio di trasformazione.
E la durata di tali segnali é
proporzionale alla convinzione
che presiede al gesto che
imprime il segnale.
Nelle cittá, la quantitá di informazioni accumulate
e la velocitá con cui essa diventa obsoleta sono
enormi, ma rispetto ad altri territori costruiti – come
ad esempio quello agricolo – la convinzione che
accompagna ogni gesto, in ogni momento, é molto
grande. E di conseguenza altrettando lunga è la
permanenza dei segni; perlomeno, i segni sono
meno effimeri che in altri sistemi di trasformazione,
o semplicemente si materializzano attraverso
l’utilizzo di materiali piú duraturi. Eppure allo stesso
tempo, e per quanto possa sembrare paradossale,
la durata di questi segni é meno persistente di
quanto avvenga nel territorio agricolo.
Analizzando le cittá contemporanee, attraverso
la rete di vincoli e protezioni che negli ultimi
decenni si é sviluppata rispetto ai segnali del
passato, troviamo una porzione fisica della
cittá caratterizzata da una grande immobilitá, e
un’altra caratterizzata da una grande dinamicitá.
Dal momento che i processi di crescita spaziale
seguono una logica centrifuga, le zone di maggiore
immobilitá si situano generalmente nel centro,
mentre quelle di maggior dinamicitá si trovano nella
periferia. La periferia puó essere definita come
un territorio urbano senza maturitá, una sorta di
cittá adolescente, incapace e priva di conoscenze
sulle relazioni che, una volta giunta alla maturitá,
dovrá per forza di cose e per necessitá di armonia
imparare a stabilire.
Ma un’analisi piú dettagliata dell’immobilitá urbana,
ossia della durata dei segnali nell’ambito urbano, ci
fa capire che un maggiore carattere di permanenza
coincide proprio con quelle parti apparentemente
meno compromesse fisicamente: le zone verdi.
Questa resistenza alle trasformazioni deriva non
tanto dalla durata fisica dei materiali, dal momento
che nel loro caso la cancellazione dei segnali
sarebbe facile, ma dalla relazione che le persone
stabiliscono con quegli spazi e quei luoghi: relazioni
di affetto, relazioni di carattere emotivo.
Ció significa, in definitiva, che ripensare una cittá
a partire dalla sua struttura del verde corrisponde
a incardinarla su ció che essa contiene di piú
definitivo, di piú duraturo, di meno condizionato da
circostanze, occasionalitá e accidentalitá. |
|
|
|
|
|