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PER UNA LETTURA SIMBOLICA DELLA CITTÀ
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di Dario Vivian |
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VICENZA - UNA NUOVA DIMENSIONE URBANA
di Cino Zucchi
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SULLE CITTÀ
di Joao Nunes
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SUL WORKSHOP
di Flavio Albanese
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Il tema è assai vasto e richiede competenze
diverse per essere affrontato. Mi limito ad alcune
annotazioni, che possano essere di auto a
ripensare la città da parte di chi la progetta, di
chi la amministra, di chi la abita; non quindi un
discorso per esperti, ma alcune provocazioni che
interroghino ciascuno per la parte che gli compete.
Il termine simbolo
Purtroppo, quando parliamo di simbolicità,
dobbiamo fare i conti con una deriva semantica:
la parola simbolo, nel linguaggio corrente, indica
spesso ciò che si oppone al reale oppure ciò
che è insignificante. Recuperandone invece il
significato etimologico (syn-ballein), emerge quanto
esso sia fondamentale nella comprensione della
realtà; il simbolo infatti è ciò che mette insieme,
in particolare la dimensione oggettiva e quella
soggettiva. Il reale non si impone a noi umani
in forma oggettivistica, come un dato bruto
fissisticamente determinato; nemmeno lo possiamo
inventare in modo soggettivistico, cadendo
nell’immaginario irreale. L’approccio simbolico,
mettendo insieme la dimensione oggettiva e quella
soggettiva, è interpretante la realtà; da una parte
si pone in ascolto di essa, dall’altra la plasma,
la modifica, le permette di avere un senso. È il
compito affidato all’umanità, collocata nel mondo
per renderlo abitabile; c’è un rischio in questo,
ma è un rischio da correre affinché la realtà non
rimanga muta e ultimamente insignificante. La
tradizione biblica non presenta la creazione come
un’opera conclusa, ma come un’opera aperta.
Già i rabbini commentavano in quest’ottica la
scelta di Dio nel processo creativo: “cessò nel
settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto”
(Genesi 2,2). Ha cessato lui, perché continuiamo
noi. Una folgorante frase di s. Agostino richiama
ciò in modo denso e sintetico: “Initium ut esset,
factus est homo”; l’uomo è stato fatto, affinché ci
fosse davvero inizio. A noi è affidato di far sì che
la creazione mantenga la sua dinamica creativa,
aperta, inventiva.
La città come luogo simbolico
Mi sembra che proprio nella città si raccolga
la sfida della simbolicità; infatti progettando,
costruendo, abitando la città, da una parte ci si
mette in ascolto di un territorio, lo si conosce, lo si
rispetta, dall’altra lo si plasma creativamente, lo si
umanizza, lo si investe di senso. Il rischio è alto, al
punto che può risultarne una città simbolica (che
mette insieme armonicamente) o una città diabolica
(che divide violentemente). La stessa tradizione
biblica, a questo riguardo, sembra proporre un
doppio volto della città. Di Caino, ucciso il fratello
Abele, si racconta: “poi divenne costruttore di
una città” (Genesi 4,17); è la tradizione negativa
sulla città, sinonimo di violenza, di prepotenza, di
conflittualità. Ma l’utopia di un mondo nuovo viene
raffigurata ancora dalla città: “Vidi la città santa, la
Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio,
pronta come una sposa adorna per il suo sposo”
(Apocalisse 21,2); è la tradizione positiva, di una
città in cui si condensano le attese dell’umanità.
Progettare – ma anche abitare e amministrare
– una città significa pertanto custodirne il carattere
simbolico, che mette insieme ciò che troppo
spesso è diabolicamente diviso: l’ambiente e
l’opera dell’uomo, ciò che riceviamo dal passato e
quanto ci apre al presente e al futuro, l’attenzione
alle singolarità e l’apertura alla collettività… Una
caratteristica del simbolo è anche di evocare più
che definire, quindi tendenzialmente apre, include,
mette in movimento. Pertanto il carattere simbolico
della città domanda che si metta insieme chi la
progetta o l’amministra con chi la abita; va quindi
favorita la partecipazione, il contributo, l’apporto
dei cittadini. Ci possono essere progetti perfetti
in se stessi, costruzioni architettonicamente
pregevoli, ma se divengono “monumenti” che non
interagiscono con gli abitanti non danno volto ad
una città simbolicamente significativa. I cittadini,
con la loro partecipazione, fanno crescere la città
e crescono con essa (per questo il patrimonio
acquisito in questo senso nella vicenda Dal Molin
– comunque vada a finire – non dovrà essere
perduto). Solo in questo modo si realizza l’ideale di
città, già tratteggiato dalla cultura greca: “La polis è
il migliore maestro” (Plutarco).
La convivialità delle differenze
Un punto qualificante del carattere simbolico della
città è la capacità di mettere insieme le differenze,
non opponendole né omologandole, facendo
piuttosto in modo che comunichino tra loro. Anche
qui può essere significativa l’immagine biblica, che
oppone Babele a Gerusalemme. Da una parte
abbiamo la pretesa folle ed egemonica di edificare
“una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo”
(Gn 11,4), finalizzando a ciò l’unica lingua di tutti
i costruttori (una sorta di globalizzazione ante
litteram). Dio interviene e, poiché ama le differenze,
confonde la loro lingua e si disperdono. Dall’altra
abbiamo invece la scena della discesa dello
Spirito a Gerusalemme, dove “ciascuno li udiva
parlare nella propria lingua” (At 2,6). Le differenze
permangono, ma si fanno reciproche e comunicano
tra loro. Come progettare, amministrare, abitare
una città che sia luogo dove le differenze
comunicano? La sfida è posta in modo evidente,
visto che oramai le nostre città sono simboli di un
mondo definito sempre più da un meticciato di
popoli, culture, lingue, religioni; opporvisi, tornare
ad alzare muri, fomentare paure e rifiuti è davvero
diabolico. La città va pensata e vissuta in modo
che non si costruiscano ghetti (siano essi degradati
o residenziali), ma vi si possano intrecciare
differenze di età, di provenienza, di censo, di
culture, di religioni; in modo che non vi prevalga
l’uniformità (di negozi griffati o di centri commerciali
in serie), ma la ricchezza e la bellezza di ciò che è
diverso.
Una geografia antropica
Già nel 1955, il sindaco di Firenze La Pira ebbe
a dire nell’incontro dei sindaci delle capitali di
oriente e di occidente: “Noi sappiamo che nella
città ciascuno deve avere una casa per amare, una
scuola per imparare, una bottega o una fabbrica
per lavorare, un ospedale per guarire, una chiesa
per pregare”. Con un linguaggio forse un po’ naif,
l’amministratore dalle grandi intuizioni profetiche
ricorda che guardando alla città non dobbiamo
vedere semplicemente luoghi, ma persone. La
città simbolica richiede che si mettano insieme
le persone con i luoghi e viceversa, evidenziando
quella geografia antropica a partire dalla quale sia
possibile progettare e amministrare con intelligenza
la polis di tutti. La pianta della città va perciò letta in
chiave antropologica, individuando le zone umane e
chiedendosi dove la gente si trova (o non si trova),
come e perché lo fa, quali esiti abbia il trovarsi in
determinati luoghi, che relazione intercorre tra il
luogo esteriore e quello interiore delle persone,
delle famiglie, dei gruppi sociali… Solo così la
dimensione simbolica della città contribuisce a
ritessere la trama del tempo e dello spazio, così
disgregata nella nostra contemporaneità. |
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